I santi e i malati, Bianchissima, in corso

Le luci calarono improvvisamente, oppure furono gli occhi di Bianchissima a incancrenirsi limitando la vista, macchiandosi di venettine nere più adatte alle tenebre. Quando la porta si aprì, si vide un gruppo di medici entrare di corsa, tutti chini su un lettino che nascondevano con le schiene, le teste coperte di cuffie. Sembravano uno sciame di insetti che si abbevera da una pozza di sangue. Il loro brulicare, la frenesia con cui si muovevano sistemando goccine, facendo iniezioni, regolando tubicini e strumenti, non lasciava vedere su cosa si stessero accanendo.
Si muovevano a una velocità eccessiva che sembrava un filmato mandato avanti, e a Bianchissima le sembrò di essere soltanto un occhio, di stare lì, sulle spalle del gruppo che si stringeva per non lasciarla vedere.
Quando il lettino fu posizionato al centro della sala, Faccia di teschio si avvicinò e le disse, guarda.
Seguendo il suo dito lungo e magrissimo, Bianchissima si ritrovò ad osservare quello che lì per lì le parve un mucchietto di ossa. Le mani con i guantini di gomma afferravano gli arti smagriti, tastavano le costole che affioravano simili al segno che lascia il vento sulle dune di sabbia. Le veniva da dire, lasciatela stare, smettetela. Ma loro le si accalcavano sopra, infilavano aghi, la rigiravano, la rovesciavano e la strattonavano. La carcassa emanava uno sporco candore, una luce che contaminava le tenebre attorno. I medici le facevano dei piccoli tagli, prendevano delle macchine strane e gliele passavano come piccole sfere sul corpo, e più lavoravano, più la luminosità diventava di un giallo infetto, malato, e sembrava esalare come una febbre che si propagava dentro alla stanza.
È lei, disse Faccia di teschio, le labbra pallide, le crosticine che brillavano nel riflesso del vetro. È la santa.
La adagiarono sul lettino, lasciandola in pace un istante, e Bianchissima poté vedere i lunghi capelli del colore del fieno che le cadevano sopra le spalle. La carne, quella pellicola umida che la ricopriva era cerea. La ragazza era nuda, ma di una nudità oscena che mostrava uno stadio terminale del male. I seni si afflosciavano piccoli sopra le costole, la vita scompariva diventando una spina dorsale con un lembo di carne attaccato, il sesso, sembrava più un osso, e tra le anche appuntite, in mezzo alle cosce di cui rimaneva il femore, si vedeva una peluria chiara, rada e chiazzata, come un muschio attaccato a una pietra.