La prima
volta che lesse un libro di Teofrosio de La Tarde, Laccetti doveva avere
ventisette anni.
Il libro
si trovava nella biblioteca di un cliente, cliente che successivamente gli
aveva detto di non aver mai visto quel volume e aveva finito per regalarglielo.
Era un’edizione
rovinata, una cosa con dei colori sgargianti ma oramai consumati che gli donavano
una malinconia screpolata, un senso di fallimento e disperazione che andava ad
accentuarsi sulle forme della donna, forse una specie di astronauta o eroina
spaziale che si stagliava sulla copertina.
Quello che
davvero colpiva era lo sguardo della donna, uno sguardo marziale quando
svuotato, lo sguardo di qualcuno che ha perso ogni cosa, qualcuno il cui corpo
è stato svuotato dell’anima, della direzione centrare dell’organismo, probabilmente
da un dolore estremo; dell’artista non si leggeva il nome, l’editore non
appariva e non c’erano dettagli di alcun tipo, c’era solo la copertina e poi il
testo.
Il
romanzo di una settantina di pagine era intitolato “L’ultimo sorriso di Mia
Mallarmè”, la storia non veniva mai ben delineata, era come se l’intero romanzo
fosse un’assenza, la posizione del narratore era nel vuoto, il protagonista non
veniva mai descritto o nominato, del protagonista non si parlava mai; se ne
intuiva la presenza, c’era la sensazione forte di una forma, la consapevolezza
che una storia si stesse svolgendo ma tutto veniva affrontato di traverso, si
potevano vedere le ombre, le impronte della storia, ma era impossibile, o forse
sconsigliato guardarla direttamente.
Quello che
Laccetti concluse al termine della lettura mentre il sole iniziava a scaldare
di nuovo il mondo fu che forse se fosse entrato in un contatto diretto con i
personaggi, se avesse visto e capito davvero la storia di Mia Mallarmè allora ne
sarebbe stato distrutto.