La trasmigrazione di Madame Feval, Mostruosa, Estratto


“Seduta nel suo salone, adesso Madame Feval non sorrideva più.
Fuori, la città giaceva addormentata simile a un morto, nessuna luce brillava più in nessun luogo, nessun rumore osava interrompere quel sublime rombare, far scricchiolare anche un piccolo ramo, farsi scoprire. Restavano solo i profili aguzzi degli alberi, fittissimi, privi di vita, le linee possenti delle montagne simili alle zanne tremende di un Dio, e poi l’appiccicume dell’estate abbondante che ritardava ad arrivare gonfiando, esalando i suoi fumi dentro al ventre stracolmo del cielo.
La donna vibrò, battè i denti, la tazzina scivolò dalle dita, esplose per terra tintinnando, annaspando, e Madame Feval si ritrovò in piedi, tremante, le labbra invecchiate che sbattevano veloce in preda a una paura antichissima e pura.
Non è possibile, fischiò fuori dai denti mentre la mano avanzava lentissima in direzione della sottana, una mano bianca, spettrale che pareva accendersi di una luminosità opaca, simile a un latte evanescente, emanata da dentro le ossa.
Non è possibile, farfugliò ancora, la voce che si spaccava in tantissimi minuscoli pezzi, tictictictintintin, le gocce che colavano rosse lungo le cosce appassite, sopra la pelle bianca, ammosciata e svuotata del tempo, accarezzando le vene violacee fino a scivolare per terra sui piedi nudi, circondando i talloni, formando una piccola macchia color rubino fatta di sangue vivo, uterino, che risplendeva accecante dentro l’oscurità.”